Il vino rosé? chiamiamolo «rosa»

Il vino rosa è sempre stato al centro della nostra vita. Anche in casa, dove il cerasuolo, tipico della nostra provincia, L’Aquila, accompagnava i pasti. I nostri nonni, però, lo consideravano un rosso. Fino a 50 anni fa, quando abbiamo iniziato a vinificare, gli aquilani lo percepivano così. E, in generale, i rosé non erano ben visti.

Ma cominciamo proprio dalle parole, che hanno un peso: rosé è un termine che sa di vecchio, rievoca la francofilia delle nostre nonne che chiamavano paltò il cappotto e abat-jour la lampada. Se esistono il bianco e il rosso, perché non il rosa? Dal nome, un dettaglio solo all’apparenza, abbiamo iniziato la nostra battaglia per ridare dignità al vino rosa. Crediamo non sia un prodotto secondario, ma un’alternativa di pari dignità rispetto ai più blasonati «cugini». Anche perché, a ben vedere, il vino rosa ha fatto da mattatore sulla scena enoica per secoli e secoli, anche se sotto le mentite spoglie del rosso e del bianco, proprio perché era privo di un nome proprio.

Lo si legge nei documenti antichi che parlano di vinificazione: a partire dal Trecento, quando pare che si sia diffusa la vinificazione con le bucce, tutti dicono che, se si allungava la macerazione, il mosto prendeva il sapore del raspo, divenendo imbevibile. Le macerazioni dovevano quindi essere brevi (24/48 ore): ciò implica che non si potesse estrarre un colore intenso, caratteristica che si trovava quindi solo negli intrugli di scarsa qualità realizzati con le vinacce e bevuti dai più poveri.

Una singolare alleata in questa ricerca è l’arte: analizzando le opere del passato che raffigurano calici di vino, si osserva che questi presentano sempre un colore molto scarico, più simile ai nostri rosa. Sarà solo nell’Ottocento, quando si impone la tecnica della diraspatura, che si potrà completare la fermentazione con le bucce ed estrarre tutto il colore desiderato.

Ed ecco emergere il rosso moderno, da un’evoluzione della vinificazione in rosa. Il colore scarlatto, che fino a quel momento era sinonimo di cattiva qualità, si diffonde nei calici dell’emergente borghesia. Quasi un simbolo di lotta di classe, in contrapposizione alla nobiltà che beveva i più raffinati rosa.

Oggi il vino rosso non rappresenta più la novità come poteva esserlo ai tempi dei giacobini e di Marat. Il rosa, invece, grazie alla sua grande versatilità negli abbinamenti a tavola, che si può definire fluidità, potrebbe essere più idoneo a interpretare il ritmo non lineare del nostro vivere. Il futuro del vino può essere decisamente roseo.

https://www.corriere.it – 22/02/2024

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