Tre Monti, il vino si fa Doppio

«QUESTO MESE ho festeggiato i quarant’anni dell’azienda e gli ottanta del fondatore». Non aggiunge altro Sergio Navacchia. In poche parole tutta una vita e la storia della Tre Monti. E così il filo degli anni lo ripercorrono i figli David e Vittorio, nella casa di via Bergullo. «I nostri progetti — sceglie le parole David — all’inizio erano diversi. Quando ero piccolo vivevamo a Bologna e papà lavorava in Rai. Questa era la casa di campagna e la cantina un hobby. Poi, soprattutto nostra mamma si affezionò a questa attività e così, dagli anni Ottanta, abbiamo cominciato a trascorrere qui tutte le estati, fino a trasferirci».

Nell’89 il vino diventa una scelta di cuore. «Nostra madre ci ha lasciati. E’ stato un momento chiave, come se stessimo leggendo un copione scritto da altri. Abbiamo deciso di proseguire la sua passione e siamo rimasti uniti. E oggi facciamo un lavoro che ci piace». La linea è stata subito chiara, di avviare un’azienda di alto profilo. «Era quasi anacronistico in quegli anni — continua David —. I miei genitori furono i primi a chiamare un enologo non emiliano-romagnolo, dimostrando uno sguardo imprenditoriale.

Oggi fare un vino buono è diventato facile: per questo devi proporre dei vini eccezionali, presentandoti con la tua storia».
 
UN PUNTO di forza dell’azienda è anche la doppia anima: dei 56 ettari, una parte dei si trova nel forlivese, nel podere di Petrignone, l’altra a Imola. «Dodici anni fa abbiamo avviato uno studio approfondito dei terreni aziendali, della loro esposizione, per vedere la reale vocazione di ogni particella». E così, le colline di Imola sono perfette per i bianchi aromatici, mentre a Forlì esplodono i rossi. «In questo modo — continua David — abbiamo un portafogli di vini variegato in un mercato che cambia continuamente.

Qualche anno fa volevano tutti il Nero d’Avola… oggi all’aperitivo si bevono solo i bianchi». A introdurre i vini è Vittorio: «La nostra bottiglia più premiata (90/100 su Wine Spectator, ndr) è il Thea rosso, dedicato alla mamma. In regione, però, siamo conosciuti soprattutto per i bianchi, dallo Chardonnay (Ciardo) al Sauvignon (Salcerella)». Il più venduto è l’Albana. «E’ un vitigno unico — prosegue Vittorio — molto difficile da coltivare: la buccia è ricca di polifenoli, che possono compromettere la longevità del vino. Si abbina a tanti piatti, è come se fosse un rosso ‘travestito’ da bianco. Purtroppo è un vino che sconta ancora pregiudizi in queste zone».

I TRE MONTI, in realtà, esportano molto all’estero. «Viaggiamo molto, ma le gratificazioni sono enormi: in certi stati trattano i produttori come delle star. Abbiamo clienti fedelissimi — proseguono David e Vittorio —soprattutto in Giappone e in Nord Europa. Ma il primo mercato sono gli Usa, in particolare l’East Coast, dove abbiamo piccoli distributori che conoscono la nostra filosofia aziendale». La difficoltà, vista da fuori, è come proporre un prodotto dal ‘gusto internazionale’, senza rinunciare alla propria identità territoriale. «Ci devi mettere la faccia — non ha dubbi Vittorio —. Andare dal cliente, che all’estero ti aspetta e si fa spiegare le caratteristiche della tua vigna.

Fino al 2007 avevamo un enologo, poi abbiamo deciso di andare avanti con le nostre forze. Magari sbagliando di più, forse la nostra Albana ora è meno accattivante, ma a noi piace». E andando avanti in questo percorso, una svolta è alle porte. «Siamo in conversione biologica — spiega David—. Una bottiglia è già in commercio, il SoNo (no ai solfiti, ndr), le altre a partire dalla vendemmia 2014». «Già da cinque anni — aggiunge Vittorio — in vigna abbiamo sperimentato solo rame e zolfo.

In cantina, invece, mettiamo i lieviti nelle condizioni ottimali di fermentare e di estrarre dalle uve le sostanze anti-ossidanti. Quando saremo del tutto biologici si chiuderà un cerchio: quello di avere cambiato mentalità, puntando a un atteggiamento preventivo in vigna».

Ma c’è un’altra novità: questa settimana, infatti, sono stati lanciati due nuovi vini. Pensati per girare in coppia. «Sono una Barbera e un Pignoletto frizzante — spiega Vittorio —. Li abbiamo chiamati DOPpio, giocando con il marchio di Denominazione di origine protetta. Il babbo sognava di avere in listino un Lambrusco, ma non siamo in zona e così…». «Devono essere i vini della gioia — entra in campo Sergio Navacchia —. Perché il vino è così, è un aggregante.

Sa qual è la cosa più bella di questo lavoro? Che ho un sacco di amici. L’altra sera eravamo qui per il mio compleanno. I ragazzi hanno messo una foto su Facebook e in venti minuti avevo messaggi di auguri da tutto il mondo. Questo è il potere vino. E della famiglia».

di Letizia Gamberini

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