Il vino è morto? Riflessioni dal nuovo mondo
Sono appena tornato dalla New York Wine Experience, che è un buon punto per sentire quel che agita le acque. Lì ci sono i proprietari e gli amministratori delle duecento aziende selezionate da Wine Spectator, importatori da ogni Paese, operatori della ristorazione e del commercio di altissimo livello, tanti appassionati paganti (molto) e tutti hanno voglia di parlare. Si vive, si tratta, si mangia e soprattutto si beve insieme per due giorni, e le novità arrivano dalle vive voci dei protagonisti. Non per sentito dire.
La più curiosa (almeno per me) è che molti importatori e distributori di vino considerano le bevande a base di marijuana un rischio in crescita: sono legali in molti Stati USA, hanno un blando effetto euforizzante non così dissimile da quello di vino e birra, zero calorie e niente anatema dell’OMS. Potrebbero addirittura aromatizzarle e colorarle chimicamente per somigliare al vino, con packaging e nomi simili. Anche se non ho mai usato marijuana, capisco il rischio.
Poi c’è il problema dello smart working: ormai molti in USA il venerdì lavorano da casa, e quello era il giorno d’oro dei ristoranti cittadini. L’atmosfera rilassata di fine impegno favoriva i consumi, e il vino scorreva a fiumi. Ora meno, molto meno, perché il venerdì la gente resta a casa e molti locali denunciano cali importanti. Voi direte che non ci riguarda, che quello che non consumano al ristorante sarà bevuto tra le mura domestiche, ma non è così: a casa manca la socialità conviviale, quella che fa alzare un buon bicchiere di rosso tra amici. Semmai si beve birra guardando la partita in tv.
In USA, come in Europa, i giovani non amano il vino e questa non è una novità. Casomai è da notare che da tempo qui le ragazze bevono alcolici quanto i maschi e pure di più, con un certo favore per le bollicine e i cocktail a base di vino come lo spritz. Forse è un punto di partenza. Importatori e distributori di vino riducono il personale, ed E. & J. Gallo licenzia 355 impiegati e 47 addetti alle cantine.
L’e-commerce del vino non pare in crescita, e aumentano gli scaffali di cocktail già pronti e di bevande di ogni tipo a basso tenore alcolico sia nelle enoteche che nei luoghi non-specializzati che vendono anche vino: sono spazi sottratti a noi, e un importatore mi ha detto che se non fosse per gin, spritz e tutti i vari cocktail “confezionati” i suoi fatturati andrebbero a picco.
Intendiamoci, il vino non è arrivato ancora all’ “effetto libreria”, ovvero agli spazi dedicati ai libri che spariscono e sono frequentati (quasi) solo da noi vecchi, ma gli scricchiolii ci sono. È evidente che in USA, più che da noi, i luoghi e i modi in cui si fa uso degli alcolici sono cambiati, così come sono cambiati i media (di ogni tipo) realmente in grado di indirizzare i consumi.
Tutto questo mi porta a una conclusione che potrà sembrarvi strana: se è l’offerta che non raggiunge più la domanda, forse va ripensato tutto ciò che sta tra il produttore e il cliente più che il vino in sé. Compresa la comunicazione, perché è vitale tornare di moda. E non ci illudiamo con discorsi alla Lollobrigida tipo “il vino italiano è unico e insostituibile”, perché i consumi sono sempre mutati e sempre muteranno e se non riusciamo a seguirli (o a indirizzarli) spariremo. È un caos, ma è dal caos che-nascono le opportunità.
Il vino italiano dovrebbe saperlo molto bene perché molto di ciò che esiste è nato dal terremoto socio-economico degli anni ’60, ’70 e ’80. Prima l’Italia produceva quasi solo per il consumo locale, molto vino sfuso e poche bottiglie, e ogni mercato del mondo era dominato dai francesi. Poi arrivammo, ce la giocammo, e vincemmo. Ovunque. Come Francia-Italia ai mondiali di calcio del 2006, che ancora gli brucia.
È accaduto grazie a un “sistema vino” nuovo, diverso da tutto e nato spontaneamente come l’erbaccia. Che poi è cresciuto fino a decine di migliaia di aziende di ogni dimensione più DOC, DOCG e IGT e vini da tavola a profusione che con la loro estrema diversità, flessibilità e novità dei modi con cui erano offerti hanno aggredito ogni segmento del mercato. Un sistema vitale, molto darwiniano e (gli amici massimalisti non se la prendano) figlio puro della “mano invisibile del mercato”. Sono passati decenni, ora ci sentiamo bravi e non facciamo più vini solo per rispondere a richieste del mercato o perché noi abbiamo creato le condizioni per cui il mercato li richieda: pretendiamo di vendere un vino perché l’abbiamo sempre fatto, o perché è buono, o perché è “autentico”, o per far sopravvivere le aree marginali, tutti intenti carini a meritevoli. È davvero un peccato che non funzionino.
Coltiviamo idiozie costosissime come le cattedrali disegnate da archi-star che chiamiamo cantine, eventi più enormi che utili e investimenti in promozione sconnessi con la redditività. L’intero sistema era parecchio naïf e prosperava, ora vuole essere scientifico e scricchiola. Ma torneremo ad adattarci e lo faremo prima degli altri, perché siamo italiani e trovare il modo è nel nostro bastardissimo DNA.
https://www.intravino.com – 28/10/2025