Il vino che cambia pelle: l’Italia e la sfida dei dealcolati
Non è una resa alla modernità, né un tradimento della tradizione. È, semmai, la presa d’atto di una trasformazione profonda che attraversa i consumi, i mercati e perfino l’idea stessa di vino. Il via libera alla produzione in Italia dei vini dealcolati segna un passaggio simbolico e politico insieme: lo Stato entra, finalmente, in un terreno che per anni ha lasciato scoperto, costringendo le imprese a guardare oltreconfine per poter innovare.
Per troppo tempo il dibattito si è fermato a una contrapposizione sterile: da un lato i custodi dell’ortodossia enologica, dall’altro i profeti di un mercato che cambia. Ma la realtà è meno ideologica e più concreta. I produttori italiani, soprattutto quelli più strutturati, avevano già compreso che una parte crescente del pubblico mondiale chiede prodotti diversi: meno alcol, più attenzione alla salute, nuovi stili di consumo. Non per rinnegare il vino, ma per affiancarlo.
Il problema non era tecnologico né culturale. Era normativo. L’assenza di regole chiare ha prodotto un paradosso tutto italiano: vini concepiti nei nostri territori, con le nostre uve e il nostro know-how, costretti a essere “dealcolizzati” in Germania o in Spagna per poi tornare sul mercato con un marchio italiano. Un corto circuito che penalizzava competitività, filiera e sovranità industriale.
Il decreto interministeriale che disciplina fiscalità e accise non risolve tutto, ma rimette le cose in asse. Restituisce alle imprese la possibilità di decidere, investire, sperimentare senza muoversi in una zona grigia. E soprattutto riconosce che l’innovazione, se governata, non è un nemico della qualità. Anzi: può diventarne un’estensione.
La vera partita, ora, non è giuridica ma culturale. L’Italia del vino dovrà dimostrare di saper fare ciò che le riesce meglio: trasformare un vincolo in stile, una tecnica in identità, un segmento di mercato in eccellenza. I dealcolati non vinceranno perché “senza alcol”, ma se sapranno essere buoni, riconoscibili, coerenti con una narrazione territoriale credibile.
C’è anche un’altra lettura, meno rassicurante ma necessaria. In un mondo in cui il consumo di vino tradizionale arretra e le giovani generazioni bevono meno e diversamente, ignorare questi segnali sarebbe stato irresponsabile. Il comparto Nolo cresce perché intercetta un cambiamento profondo nei comportamenti sociali. Fingere che non esista non avrebbe salvato la tradizione: l’avrebbe solo resa marginale.
Il vino italiano non perde dignità perché cambia forma. La perde quando si chiude, quando si difende con la retorica invece che con la qualità, quando delega ad altri il futuro. Il via libera ai dealcolati non è una fine. È un banco di prova. E come sempre, non sarà la norma a fare la differenza, ma il coraggio – e l’intelligenza – di chi saprà usarla.
https://www.ecodelsannio.it – 30/12/2025