Birriamo!

E se, tanto per cambiare, incrinassimo il rito delle Feste comandate con un tocco di trasgressione? Per esempio proviamo a sostituire champagne e spumanti per i brindisi, i pranzi e le cene con la birra.

Sacrilegio? Oltraggio all’italico orgoglio vinicolo? Niente affatto, oggi la birra può egregiamente rivaleggiare con il vino, purché non sia un prodotto industriale standardizzato, ma artigianale, uno dei settori d’eccellenza del Made in Italy.

I nostri mastri birrai producono infatti birre straordinarie che vincono i concorsi mondiali più importanti, ma soprattutto non temono rivali in quella che è la ricerca più avanzata, cioè la creazione delle birre speciali con aggiunte dei più diversi ingredienti naturali (dalla frutta alle spezie), tra le quali, ed eccoci al punto, le cosiddette birre-champagne, quelle che nascono dalla fusione del mosto di birra con il mosto di vino.

Ma andiamo con ordine. Il movimento della birra artigianale in Italia nasce tra la fine del 1995 e l’inizio del 1996, quando viene liberalizzata la produzione casalinga di birra.

Aprono subito, e contemporaneamente, sei microbirrifici, che nel Duemila diventano una cinquantina, 350 nel 2010, per arrivare agli oltre 500 attuali.

La richiesta al principio era limitata a una nicchia di estimatori, ma l’abilità dei birrai italiani ha creato velocemente un vero mercato, facendo scoprire agli appassionati tipologie e sapori inediti.

«E’ successo perché fin dall’inizio i birrai italiani hanno voluto radicarsi nel proprio territorio usando i prodotti tipici della tradizione per creare qualcosa di speciale», spiega Eugenio Signoroni, curatore della Guida alle birre d’Italia e della Guida alle osterie d’Italia di Slow Food. «Cominciano con le castagne, poi ogni regione si specializza nell’utilizzare un prodotto locale, il farro in Toscana, il grano arso in Puglia e così via».

Non sembra esserci molta differenza, dunque, tra la creazione di birra e la gastronomia del territorio. D’altra parte il mestiere di birraio è molto simile a quello dello chef stellato: si tratta di prendere le materie prime migliori e fonderle per ottenere un prodotto equilibrato, qualcosa in cui noi italiani siamo maestri.
«Curiosamente, non avere alle spalle una storia di produzione birraria, come tedeschi, belgi, inglesi e così via, ci ha avvantaggiati: i nostri artigiani hanno potuto esprimersi liberamente», precisa Signoroni.
Ed è così che a un certo punto si giunge a usare il mostro ottenuto alle uve tipiche delle diverse regioni per creare birre che si avvicinano alla complessità del vino e che lo prevedono nella loro formula.
«All’inizio si usano le botti che hanno contenuto vino rosso per far riposare la birra», dice Signoroni. «Un riposo che dura anche più di un anno e mezzo, durante il quale, ovviamente, la birra cambia profondamente le proprie caratteristiche, acquista una certa acidità, grandi profumi, una componente vinosa che si avverte immediatamente.

In seguito, verso il 2004-2005, si comincia ad aggiungere a un certo punto della produzione il mosto di vino, facendo anche una particolare attenzione alla rifermentazione in bottiglia.

C’è poi chi si è spinto oltre, come il birrificio piemontese Loverbeer: al mosto di Barbera in fermentazioni aggiungono quello di birra, processo che crea un ibrido totale, al palato non si capisce dove finisce il vino e dove inizia la birra».

Dal punto di vista della tecnica enologica, anche se per comodità si definiscono birre-champagne, bisogna precisare che quasi nessuna di queste grandi birre “fa la sboccatura”, operazione che consiste nel separare il vino dai residui (fecce e lieviti morti) della seconda fermentazione avvenuta in bottiglia (dégorgement) negli spumanti ottenuti con il metodo champenoise.

«Tranne il produttore laziale Birra del Borgo con la sua Equilibrista: qui aggiungono mosto di Sangiovese, fanno la rifermentazione in bottiglia e, dopo un periodo di maturazione della birra sui lieviti, fanno la sboccatura, proprio come per gli spumanti metodo champenoise», spiega Signoroni.

«Il confine tra i due mondi, come si vede è sempre più labile, il risultato è qualcosa di assolutamente nuovo, ma bisogna fare attenzione a non esagerare, il vino non deve prendere il sopravvento, stiamo sempre bevendo una birra». Ed è qui che si fa la nobiltà del mastro birraio.

repubblica.it – 27/12/2013

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