Un vitigno orientale millenario è stato piantato fuori Firenze da un sommelier giapponese

Tatsuhiko Ozaki doveva fare il pilota di linea ma è finito con l’innamorarsi dell’Italia e tentare un progetto un po’ pazzo per fare vino sull’Appennino toscano con un vitigno storico giapponese

C’è un punto, nelle storie delle persone, in cui le traiettorie sembrano cambiare da sole. Un soffio di vento, una diagnosi, un’intuizione, un ricordo d’infanzia. Per chi è cresciuto all’ombra del Monte Fuji, respirando la sua calma severa, quel soffio è arrivato presto. Fino a ventidue anni per Tatsuhiko Ozaki, giapponese di stanza in Toscana, il sogno era chiaro: diventare pilota di aerei di linea. La rotta era tracciata, come quelle che si vedono sulle mappe illuminate dei voli intercontinentali. Poi è arrivato un ostacolo minuscolo e potentissimo: un problema di allergia, un valore IGE fuori scala, un dettaglio medico che ha chiuso una porta e ne ha aperta un’altra, imprevista.

Quella porta aveva il profumo della cucina italiana, un amore nato da bambino, quando i sapori sembravano un continente lontano da esplorare. L’idea, semplice e visionaria insieme, era portare in Giappone vini e prodotti artigianali difficili da trovare. Così anche la tesi all’Università Internazionale di Tokyo prese una direzione precisa: una ricerca sul movimento Slow Food, per riportare luce sulle antiche varietà giapponesi di frutta e verdura. Mettere radici nel passato per far crescere il futuro. Il passo successivo è stato logico e coraggioso: trasferirsi in Italia, nel 2013, per iniziare un’attività di import-export. Non tutto è filato liscio, come succede nelle storie che meritano di essere raccontate. Le difficoltà burocratiche, pratiche e perfino linguistiche erano tante. Ma proprio in quegli anni di tentativi e inciampi è arrivato l’incontro al Vinitaly con i vini di Lavacchio, la fattoria per la quale lavora ancora oggi. E certe volte basta un bicchiere per decidere: “Mi unisco a voi”. Così è stato, nel 2015.

La passione per il vino non è nata sui libri, ma a tavola. Da piccolo, mentre cresceva la curiosità per i sapori italiani, arrivava anche quella per ciò che li accompagna. Bere per capire, capire per raccontare. Nel 2017 è arrivato il passo formale: il corso da sommelier FISAR e il diploma. Ma l’amore, quello, c’era già. Le origini, però, sono come un’ombra fedele: ti seguono, anche quando scegli un’altra patria. Nel paese ai piedi del Fuji cresce da secoli un vitigno antico, il Koshu, documentato almeno dal 1200, un’uva giapponese ma con una sorpresa nel sangue: il suo DNA rivela parentele europee. In Giappone, però, quell’uva soffre. Piove troppo in primavera e in estate; i grappoli si gonfiano oltre misura, il mosto perde concentrazione. Così nasce l’idea, più poetica che tecnica, di farla crescere in Toscana. Un paradosso con logica tutta sua: lontano da casa, il Koshu potrebbe mostrare il suo carattere più autentico.

Il luogo scelto è Firenzuola, Appennino fiero e pietroso. Una manciata di barbatelle di Koshu — per ora cinquanta — piantate accanto a seimila piante di Pinot Nero “tré fin”, selezione massale da Gevrey-Chambertin. Siamo a 720 metri, con un terreno che pare una biblioteca di geologia: marna e galestro del Burdigaliano, rocce che raccontano ere. Il vento non dà tregua, la luce arriva presto e se ne va in fretta; le notti, anche d’estate, mordono. La burocrazia non aiuta, e per vedere una bottiglia di Koshu italiano servirà pazienza: forse il 2029. Il Pinot Nero, invece, dovrebbe arrivare prima, intorno al 2027. Ma certe storie non si misurano in anni. Si misurano in passi: quelli che portano da un sogno di cabina di pilotaggio alle vigne sulla cresta dell’Appennino. E nel modo in cui, ogni tanto, la vita decide di sorprenderti con una rotta diversa. Non sempre più facile. Ma spesso più vera.

https://www.cibotoday.it – 20/12/2025

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